sabato 27 novembre 2010

Blog collegati

http://albini.altervista.org/

Il dollaro, lo yuan e il resto del mondo

I summit economici internazionali si caratterizzano sempre di più come confronti più o meno garbati fra i paesi sviluppati, che faticano a mantenere il proprio ruolo e le conseguenti posizioni di potere, e quelli emergenti, il cui peso nell’economia mondiale continua a crescere. Ne è oggettiva dimostrazione la recente proposta di modifica degli assetti in seno al Fondo Monetario Internazionale, nel board del quale i paesi emergenti acquisteranno più peso a spese dell’Europa, che perde due consiglieri, mentre gli Stati Uniti perderanno il diritto di veto.

Per quanto concerne il G 20 che si è tenuto gli scorsi 11 e 12 novembre a Seul, si è assistito a un inedito – e impensabile fino a qualche anno fa – atto di accusa nei confronti degli USA da parte degli altri paesi: Cina, Giappone, Brasile, India e Corea.

È stata criticata la recente decisione della Federal Reserve di immettere sui mercati liquidità per 600 miliardi di dollari mediante una seconda operazione di riacquisto di titoli di stato: “quantitative easing 2” (Qe2). Secondo gli USA, tale politica espansiva è volta a favorire gli investimenti produttivi e con essi l’occupazione; ma mentre questi benefici dipendono anche (anzi soprattutto) da altri fattori, sicuramente l’effetto immediato sarà quello di deprezzare ulteriormente il dollaro. Diminuirà così il valore reale del debito americano, in gran parte posseduto da altri stati sovrani, prima fra tutti la Cina; risulteranno anche più competitivi i prezzi delle merci americane sui mercati internazionali. Inoltre, essendo il dollaro la principale valuta di riserva, le autonome decisioni della FED pongono problemi “esogeni” di politica monetaria anche ad altri paesi europei e non.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, lamentano che la Cina mantenga artificialmente basso il tasso di cambio della propria moneta, accrescendo così il vantaggio competitivo dei suoi prodotti.

I problemi essenziali dell’economia mondiale sono costituiti fondamentalmente dagli squilibri monetari e commerciali tra i diversi paesi. Cina e Germania e altri paesi cosiddetti emergenti hanno un forte avanzo della bilancia commerciale, altri - USA in testa - hanno invece necessità di rilanciare le rispettive economie indirizzando verso i propri prodotti la domanda interna e soprattutto quella estera. Il G 20 di Seul, come c’era da aspettarsi, si è concluso con un sostanziale nulla di fatto su questi temi; ne consegue che la cosiddetta “guerra delle valute” è tutt’altro che conclusa. Quindi, se da un lato gli USA persisteranno nella politica di deprezzamento del dollaro, gli altri paesi sono ben determinati a non subire passivamente l’iniziativa americana: essi, ove possibile, adotteranno le necessarie contromisure, con il risultato che i valori relativi delle diverse valute finiranno con il riequilibrarsi, avendo nel contempo riversato altra liquidità sui mercati finanziari internazionali, creando le premesse per un’altra bolla speculativa.

Proprio per cercare di fronteggiare eventi di questo genere, il G 20 ha approvato le nuove norme, messe a punto dal Financial Stability Board, volte ad assicurare una maggiore solidità del sistema bancario grazie a più rigorosi requisiti di capitalizzazione.

* * *

Nella contesa fra USA e Cina, l’Europa si trova non solo a svolgere il ruolo di spettatore emarginato e passivo ma, a causa delle sue divisioni, sta diventando terreno di caccia per la speculazione finanziaria internazionale.

Fa eccezione la sola Germania che esibisce una crescita economica di tutto rilievo e un ampio attivo della bilancia commerciale. La competitività internazionale delle merci tedesche deriva solo in parte dalle quotazioni dell’euro; essa si deve all’efficienza acquisita da quel sistema–paese, che si caratterizza per l’elevata produttività del lavoro e la modesta crescita del costo nominale di un’ora lavorata.(1)

Questa situazione fa sì che la Germania consolidi il suo ruolo di paese leader dell’eurozona e che la Cancelliera Angela Merkel possa dettare le condizioni per l’erogazione degli aiuti ai paesi in difficoltà; possa proporre la revisione in senso più rigoroso del patto di stabilità e possa, infine, invocare misure volte a far ricadere sulle banche che hanno speculato sui debiti sovrani, gli oneri delle conseguenti crisi finanziarie. Ma mentre la revisione del patto di stabilità e la disciplina del settore finanziario sono ancora da definire, di fronte a situazioni di emergenza, quali quelle della Grecia e ora dell’Irlanda, l’unica condizione di fatto posta per erogare gli aiuti è quella di esigere una politica di rigore. L’impegno richiesto per il risanamento dei conti pubblici a quei paesi che hanno alti deficit e volumi di debito elevati costringeranno quei governi a stringere i cordoni della borsa, praticando tagli sempre più incisivi alla spesa pubblica, vale a dire a stipendi, pensioni e servizi sociali, con la conseguenza che, in definitiva, gli oneri che ne deriveranno finiranno con il ricadere sulle spalle dei cittadini, specie su quelli appartenenti alle fasce più deboli. Il che, inoltre, ha l’effetto di soffocare i timidi segnali di ripresa che si vanno manifestando.

Le recenti traversie dell’Irlanda hanno posto in risalto, ancora una volta, il problema strutturale dell’eurozona: a fronte di una gestione monetaria unica la politica economica è responsabilità dei singoli governi. Ne consegue, tra l’altro, che quando si tratta di prestare soccorso a un paese in difficoltà occorrono faticose trattative e complicati accordi. L’Unione Europea appare incapace di mettere in campo tempestivi interventi di sostegno a favore di singoli paesi; questi, nel frattempo, sono costretti a collocare i propri prestiti a tassi sempre più elevati, con la conseguenza di appesantire ancor di più i rispettivi bilanci

Nel caso dell’Irlanda, a differenza di quanto avvenne per la Grecia, la Germania si è dimostrata particolarmente sollecita: non per altruismo, ma perché le banche tedesche sono pesantemente esposte verso quelle irlandesi, un tracollo di queste ultime avrebbe per la Germania conseguenze assai gravi. Di qui gli accorati e allarmati appelli della Cancelliera Merkel, che deve convincere soprattutto i contribuenti tedeschi a sopportare gli oneri conseguenti.

All’Irlanda è richiesto un rigoroso programma di risanamento dei conti pubblici e quindi “lacrime e sangue” per quei cittadini. Quel governo si è impegnato ad operare incisivi tagli allo stato sociale per ottenere dall’Europa un prestito di 85 miliardi, dei quali ben 35 andranno per il salvataggio delle banche; non sarà, peraltro, aumentata la modestissima aliquota del 12,50% sul reddito delle imprese, che è stata la chiave dei successi economici degli anni ’90, per timore di allontanare le multinazionali che da quella aliquota sono state attratte.

In sostanza l’Europa (leggi: Germania) ha imposto una via per il risanamento che anziché far leva sul sostegno della domanda interna, sosterrà banche e imprese. Nell’interesse di quel paese e dell’eurozona in generale ci auguriamo che la scelta sia vincente, altrimenti i sacrifici (non certo delle banche né delle imprese) saranno stati inutili.

Ma la speculazione internazionale, più che alle intenzioni, guarda alla situazione finanziaria dei singoli stati e, in particolare, all’entità dei loro deficit. È di questi giorni l’allarme lanciato dal Presidente dell’Unione Europea Van Rompuy, il quale in un recente intervento ha detto: “Siamo di fronte a una crisi per la nostra sopravvivenza. Dobbiamo lavorare tutti insieme per permettere alla zona euro di sopravvivere. Infatti, se l'euro non sopravvive, neanche l'Unione europea sopravvive". Ma ha aggiunto: "Ho fiducia che supereremo questo momento". (2) Buon per lui.

26 novembre 2010

________

(1) In proposito vale la pena di riportare alcuni dati di recente riferiti dal Governatore Draghi in occasione di un convegno: “Tra il 1998 e il 2008 […] il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 in Francia; è addirittura diminuito in Germania. […] Questi divari riflettono soprattutto i diversi andamenti della produttività del lavoro: in quel decennio […] la produttività è aumentata del 22 per cento in Germania, del 18 in Francia, solo del 3 in Italia”. (Crescita, benessere e compiti dell’economia politica, Lezione Magistrale del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, Ancona 5 novembre 2010).

(2) La Repubblica del 16.11 2010